28 novembre 2018 Si compiono oggi 450 anni dall’inizio della prima comunità di carmelitani scalzi a Duruelo. La fondazione, come sappiamo, durò assai poco e può essere considerata un primo tentativo di impostare una vita carmelitano-teresiana al maschile, ancora bisognoso di molte correzioni e aggiustamenti. In questo senso, non si possono mettere sullo stesso piano la fondazione del monastero di San José ad Avila, pianta robusta, fin dall’inizio ben radicata, con il piccolo germoglio di Duruelo, alla ricerca di un’identità e di un terreno propizio alla sua crescita. La storia dei carmelitani scalzi nasce così e forse rimane sempre caratterizzata dalla provvisorietà e dall’inquietudine: siamo esuli, in cammino verso una patria, che non sta alle nostre spalle, ma piuttosto dinanzi a noi. Riconosciamolo: non è facile vivere in una tensione costante, non è facile attraversare il deserto con tutte le sue fatiche, pericoli e tentazioni, guidati soltanto dalla promessa di una terra in cui potremo abitare stabilmente.
E tuttavia, nel pronunciare queste parole, si affaccia al mio spirito una sorta di consolazione: non è proprio questa l’esperienza del nostro padre e fratello, fra Giovanni della Croce? Se è vero che non possiamo contare su un luogo e su una storia “incantata”, non ci manca però un’anima, un volto, un carisma in cui ritrovarci e fondarci. Oserei dire che la storia dei carmelitani scalzi non è tanto quella che si può ricostruire a partire dai documenti e dagli archivi, quanto quella del percorso che ogni figlio di santa Teresa intraprende uscendo nella notte, senza altra luce che quella che gli arde nel cuore, verso l’oggetto del desiderio, o meglio: attratto dalla forza di Colui che lo desidera e lo attende. È la storia di una «dichosa ventura», nella quale quanto più si perde, più si guadagna; quanto più ci si allontana, tanto più ci si avvicina; quanto meno si è protagonisti, tanto più si partecipa al protagonismo dello Spirito di Dio nella storia.
Non dovrebbe meravigliarci se all’origine dei carmelitani scalzi non troviamo altro che un punto su una mappa geografica, in un grande spazio vuoto, un nulla che dice che ciò che conta non è lì. E allora non ha senso fermarsi, bisogna continuare a camminare, a cercare, a interrogare e a interrogarsi. È questa la fatica dell’essere carmelitani scalzi, è questa la nostra vera e profonda descalcez. E quanti rischi si celano in essa! Come il popolo d’Israele nel deserto, il cammino ci pesa, desideriamo essere come gli altri popoli con le loro tranquillizzanti divinità, abbiamo nostalgia dell’Egitto da cui siamo usciti, ci ribelliamo alle nostre guide, disprezziamo i doni con cui il Padre ci sostiene nel cammino e, finalmente, abbiamo paura di entrare nella terra promessa.
Chi può proseguire in questo esodo? Solo chi si è incontrato con il Dio vivente, solo chi ha fatto esperienza del fuoco che non si consuma, della «fiamma viva di amore». All’origine del nostro cammino non ci sono mura né strutture: c’è una fiamma che brilla nella notte. Era la fiamma che ardeva nel cuore di Teresa e che si accese anche nel cuore di Giovanni in quell’incontro benedetto nel monastero di Medina. È lì che fu concepito il nostro modo di essere carmelitani, fedelmente ma anche diversamente da ciò che eravamo stati fino ad allora. Teresa, dopo cinque anni di vita beata nella comunità di San José, sente il suo cuore dilatarsi, ascolta la voce del Signore che le dice: «Aspetta un poco e vedrai grandi cose» (F 1,7-8). Ormai, senza che ella lo voglia, lo Spirito la sta lanciando nel grande mare della Chiesa universale. E il piccolo, giovanissimo fra Giovanni si lascia coinvolgere in questa avventura, accetta il rischio di una novità che umanamente doveva apparirgli assai fragile e insicura. E tuttavia, non si lascia spaventare da valutazioni umane e da calcoli razionali: dà fiducia alla parola di Dio che sente risuonare nella voce di una donna esperta e appassionata.
E così iniziano a camminare insieme. E questa è l’altra condizione per poter affrontare il cammino verso la terra promessa: percorrerlo insieme. Forse se ancora oggi, 450 anni dopo Duruelo, la meta ci appare lontana, è perché abbiamo camminato in modo troppo solitario, permettetemi di dirlo: troppo maschile e troppo clericale. Teresa deve aver presentito questo rischio e per questo volle condurre con sé fra Giovanni a Valladolid perché sperimentasse lo stile di fraternità proprio delle sue comunità. Giovanni lo vide e, ne sono certo, lo comprese e lo fece suo. Ma riuscì a trasmetterlo anche ai suoi fratelli? I tempi non erano facili, come la storia ci insegna. Ma oggi, fratelli, in mezzo a tante difficoltà, a tante debolezze e fragilità, abbiamo una grande opportunità. Oggi, dopo tanti fallimenti storici ed ecclesiali e dopo tanta esperienza di grazia, ci è dato di ripartire non dalla forza, ma dalla debolezza, non dalla potenza, ma dall’impotenza. Benedetta la nostra debolezza e la nostra impotenza se grazie ad esse rinunciamo alla nostra autosufficienza e ci consegniamo nelle mani dei fratelli! Se smetteremo di difenderci gli uni dagli altri, se cominceremo a parlarci e a conoscerci, allora arriveremo alla meta, quella meta verso la quale Duruelo ci indirizza come una freccia, come una indicazione che ci orienta nel cammino. Da qui ripartiamo, con l’unico equipaggio di cui abbiamo bisogno per il cammino: essere fratelli, essere scalzi, avere come sorella la Vergine Maria.